“ZeroTolleranza” 5 di 5

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ZeroTolleranza – Uscita, debutto e Cattani

Ha iniziato a farsi conoscere cinque anni fa con La nostra storia alla sbarra, cronaca del G8 di Genova e da allora Zerocalcare ha continuato a disegnare fumetti raccogliendo e rielaborando stimoli provenienti da fatti di cronaca, storie di strada e vissuto personale.

Il problema è che abbozzamo sempre è il suo contributo all’antologia ZeroTolleranza dove la fantascienza orwelliana convive con scene da spaghetti western culminando in un epilogo splatter. Anche se il racconto attinge a repertori di genere evocando memorie di fumetti e film divorati precocemente, la realtà di tutti i giorni non è troppo lontana. L’immagine di uno sceriffo mascherato chiamato a tutelare l’ordine pubblico o di uno strano velivolo che sorvola minaccioso la città controllando movimenti sospetti, a qualcuno potrebbe apparire quasi plausibile. Ed è qui che inizia la storia: da un po’ di tempo tutto questo ha iniziato a sembrarci quasi normale.

Gli eventi si svolgono in gran parte sulla strada, da dove Zerocalcare attinge in parte anche i propri mezzi espressivi guardando al linguaggio dei graffiti. Dalla strada proviene anche la parlata di alcuni suoi personaggi e la loro attitudine riottosa che scatta in difesa dei luoghi di connessione tra le persone, contro la tendenza a volerle dividere e controllare.

Da uno di questi luoghi proviene anche Zerocalcare che definisce la sua “anomalia” di fumettista il fatto di appartenere a un contesto politico in cui fare fumetti, così come suonare o cantare, è considerato un modo per contribuire alla crescita di un movimento, nel suo caso legato ai centri sociali e alla scena punk. Ed è stato questo, come racconta nell’intervista, a dargli la spinta per iniziare a disegnare.

INTERVISTA A ZEROCALCARE
Raccolta nel giugno 2008 via posta elettronica.

“Il problema è che abbozzamo sempre”, significa che finora siamo stati troppo accondiscendenti verso le scelte di chi ci governa? Che cosa ti stava a cuore raccontare?
Quello che volevo raccontare, aldilà dei toni buffi, è il modo in cui, quasi senza che ce ne accorgessimo, certi concetti sono diventati “senso comune”. La tolleranza zero me la ricordo come una cosa un po’ folcloristica evocata dal sindaco leghista di Milano, un modo di scimmiottare gli americani lontano anni luce dalla mia realtà di pischelletto romano.
Oggi, dieci anni dopo, tutte le forze politiche rappresentate in parlamento hanno fatto campagna elettorale con questa parola d’ordine. Quello che dieci anni fa era appannaggio della destra più o meno estrema, oggi è argomento trasversale del dibattito politico.
Tutto questo è stato reso possibile anche dal nostro immobilismo, non siamo stati capaci di mettere paletti a questa deriva. Restrizioni delle libertà personali, inasprimento repressivo e attacchi dei vari gruppuscoli nazisti (li metto insieme perché, volenti o nolenti, colpiscono gli stessi obbiettivi e perseguono lo stesso modello di società) si sono susseguiti in un’escalation che non abbiamo saputo spezzare e alla quale non siamo riusciti a rispondere.
Nel coro del consenso non siamo riusciti ad alzare la nostra voce abbastanza per farci sentire. Per questo “abbozzamo sempre”: perché ci indigniamo di volta in volta ma poi ci perdiamo sempre in chiacchiere e non riusciamo a dare quelle risposte immediate, “de core” come si dice a Roma, di cui forse avremmo bisogno per dire “ok, adesso basta, questo è il limite, e non può essere superato”…

Perché scegli spesso la strada come l’ambientazione dei tuoi racconti?
In realtà non ci avevo pensato… Credo sia strettamente legato a quello che è più o meno il tema ricorrente di tutto quello che mi piace raccontare, cioè il conflitto. La strada è il terreno di conflitto per eccellenza, è il punto d’incontro di tutte le contraddizioni, lo spazio pubblico perennemente conteso tra chi esercita il controllo e chi vuole liberarsene.
Valerio Marchi, “sociologo di strada” scomparso nel 2006, racconta nei suoi studi come in tutte le epoche sono esistite torme di ragazzi che avevano in comune tra loro il trascorrere la maggior parte del tempo fuori dalle mura domestiche, interpretando la strada come l’orizzonte esistenziale in cui consumare la loro rivolta contro l’autorità costituita, dai putti fiorentini che si scontrano sotto i ponti dell’Arno nel ‘300, ai Victorian Boys della Londra di fine ‘800, fino alle odierne banlieues parigine.
Tra l’altro io sono uno che se rimane in casa è capace di passare una giornata a mangiare yogurt guardando interi cofanetti di dvd di questa o quella serie, quindi faticherei a raccontare conflitti se non guardassi alla strada…

La realtà nella sua dimensione sociale e politica è la fonte a cui attingi per costruire le tue storie. Ti senti più portato per il linguaggio dell’inchiesta, cioè più aderente ai fatti, o preferisci invece lavorare sull’immaginario, dando vita a storie e mitologie urbane?
Lavorare sull’immaginario mi risulta sicuramente più facile, quasi immediato. È un tipo di lavoro molto personale, senza paletti, direi quasi spensierato. Il linguaggio dell’inchiesta è inevitabilmente più complesso e porta con sé una serie di responsabilità che non mi sento di accollarmi da solo. Riuscire a trasformare in fumetto la realtà, specie quella tragica, richiede innanzitutto un grosso sforzo di sensibilità e di rispetto nei confronti delle persone coinvolte nei fatti, e al tempo stesso una capacità di analisi ed elaborazione che distingua il fumetto da una semplice versione illustrata di quello che dicono i media.
Per questo il linguaggio dell’inchiesta secondo me dev’essere collettivo, magari il fumetto alla fine lo disegno io, ma l’impianto della storia, dal taglio alla sceneggiatura, dev’essere condiviso e ragionato collettivamente con tutti quelli che si sentono coinvolti o che pensano di poter portare un contributo.
Sto abbastanza in fissa con quest’idea, sia nel caso del fumetto ispirato alla vicenda di Renato Biagetti (il ragazzo ucciso da due fascisti all’uscita di una festa reggae a Focene nel 2006), realizzato insieme a Push-R, sia nel caso di alcune strisce-diario di un viaggio in Palestina realizzate con Cippi per XL, abbiamo cercato di tenere insieme tutti questi elementi. Mi piace l’idea che un fumetto d’inchiesta sia il prodotto di un’intelligenza e di una lettura collettiva dei fatti, aldilà di chi poi lo disegna materialmente.

Come funziona materialmente la produzione di un tuo fumetto, a partire dalla tecnica di disegno, fino alla conversione in digitale?
Di solito faccio tutto in modo abbastanza classico: lavoro sui fogliacci da fotocopia perché sono quelli più economici, prima faccio le matite abbastanza grezze, poi definisco meglio il disegno con l’inchiostro nero. Ripasso solo le linee, non riempio i neri perché si spreca un sacco d’inchiostro e ‘sti pennarelli finiscono subito e costano un sacco di soldi… Per cui a quel punto passo tutto allo scanner e tutte le operazioni successive le faccio col computer, dal riempimento dei neri al colore vero e proprio. Da un lato perché i fogli da fotocopia sottilissimi non si prestano molto alla colorazione pittorica, e comunque io con il pennello sono abile quanto una lontra ubriaca. Inoltre lavorando per fanzine, fumetti o manifesti “poveri” che poi finiscono stampati di solito in bianco e nero o bicromia, spesso fotocopiati duemila volte, il computer consente risultati molto più riproducibili, senza spendere in carte fotografiche patinate o quant’altro.

Ci vuoi parlare un po’ della scena punk romana, di quello che accade e di come si evolve, ma anche del tuo lavoro come illustratore, grafico e fumettista in questo contesto?
Credo di avere una visione molto fondamentalista e postadolescenziale del punk, penso che della scena ne possa parlare solo chi ne fa parte… Cioè chi ci investe davvero forze, energie, tempo, chi va ai concerti non perché c’è “il gruppo figo venuto dall’America” ma perché la scena va supportata sempre, anche e soprattutto quando suonano i gruppetti esordienti o locali. Io da qualche anno non riesco più a essere così costante, quindi mi limito a osservarla dall’esterno: mi sembra viva, variegata, piena di energie positive, di voglia di fare e di facce nuove che non conosco.
Comunque anche se non riesco più ad essere a un concerto ogni sabato sera, per me il legame con quell’universo rimane fortissimo: intanto perché il mio approccio al fumetto viene direttamente dal punk, dall’idea del “do it yourself”: considera che uno dei motivi per cui ho iniziato a disegnare è stato proprio quello di contribuire a modo mio alla scena, per superare la frustrazione di non saper mettere due note in fila e di essere stonato come una campana.
Penso di aver fatto decine, se non centinaia, tra locandine, copertine di cd o di fanzine, non soltanto per i miei amici, ma anche per gruppetti esordienti sperduti in qualche provincia di cui nemmeno sapevo l’esistenza, fino addirittura ai festival punk colombiani o baschi… tra l’altro è una dimensione in cui neanche si parla di soldi, visto che col punk nessuno si arricchisce, quindi l’idea di fondo è veramente quella che “ognuno porti quello che sa fare”. Chi vuole suonare suona, chi vuole cantare canta, io disegno.

Zerocalcare è illustratore per Liberazione e Carta, pubblica fumetti anche su XL di Repubblica. Il suo primo lavoro è stato La nostra storia alla sbarra, cronaca a fumetti dei giorni del G8 di Genova, nel 2003.
Ha quindi partecipato all’antologia GeVsG8 per raccogliere fondi per i processati del G8 di Genova. Insieme a PUSH-R ha dato alle stampe un autoproduzione a colori, La politica non c’entra niente, ispirato alla vicenda di Renato Biagetti, il ragazzo ucciso a coltellate a Focene perché individuato come “zecca” in quanto usciva da una festa reggae.
In questi giorni è uscito un suo contributo a fumetti di 4 pagine in un libro/inchiesta sociologica sulla condizione giovanile nella periferia della metropoli, I giovani della città di sotto, patrocinato dalla provincia di Roma. Altre sue attività sono legate ai centri sociali e alla scena punk, per cui produce locandine, manifesti per concerti, illlustrazioni per magliette e copertine di cd.

Tutte le storie e i disegni di ZeroTolleranza sono rilasciati con licenza Creative Commons per poterne consentire la diffusione e la condivisione da parte dei lettori a fini non commerciali e riportandone l’origine.

LA COLPA È CHE ABBOZZAMO SEMPRE di ZeroCalcare

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4 Risposte to ““ZeroTolleranza” 5 di 5”

  1. franz catt Says:

    forse te ne avevo già parlato in qualche sera in via del pratello,
    comunque caparezza (mi riferisco al suo video qui postato qualche tempo fa) è un fan degli uochi toki
    e si sente:

  2. Andrea Plazzi Says:

    Come no, ricordo bene… e sottoscrivo.

  3. Di presunti trentenni, postadolescenza e vecchie imbellettate « Let's blog! Says:

    […] i più impegnati, ZERO TOLLERANZA. Share this:EmailFacebookDiggTwitterStumbleUponRedditLike this:LikeBe the first to like this […]

  4. gilles Says:

    Zero Calcare ti devo una statua!!

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