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Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell

mercoledì, 30 giugno 2010 - 14:14

Questo post è rivolto a persone con interessi di traduzione e con almeno un’infarinatura (ma anche un po’ di più) di inglese americano. Quel tanto – che non è poi pochissimo – da non arrancare seguendo il testo di cui vi ho proposto la traduzione nel post precedente (il tutto con qualche intercalare inglese scioccherello: prendeteli con umorismo e un po’ di frivolezza, non è spocchia della domenica; i più seriosi sono avvertiti).
Post che ha ricevuto in pochi giorni un numero di contatti molto superiore alla media, per questo periodo dell’anno e della settimana.
Il fascino di una canzone come Blind Willie McTell va sicuramente molto al di là del suo (assoluto) valore musicale, e tocca evidentemente corde profonde. Ma anche limitandoci al più immediato (si fa per dire) fascino intellettuale, i motivi evidenti d’interesse non mancano.
Per esempio il testo sofisticato ma mai ermetico o astratto, che procede per lampi e immagini, tracciando uno scenario di vivezza impressionante e potenza visionaria, in cui si intrecciano i fantasmi della coscienza di un paese, il senso di colpa dell’uomo bianco e il rispetto reverente per la Grande Anima del Blues alimentata dal dolore e dalla sofferenza. Culminante in un senso di consapevolezza fatale e definitivo: nessuno canta il blues come Blind Willie McTell.

A questo proposito vi propongo un paio di interventi – nell’originale inglese – dell’editor, autore e critico di fumetti Adam McGovern. Sono regolarmente in contatto con Adam da almeno cinque anni, spesso per questioni di traduzione (da ma anche verso l’inglese americano) e di una cosa sono certo: non conosco nessuno con la sua esperienza e conoscenza del fumetto angloamericano contemporaneo e, in generale, della pop-culture e del suo ruolo fondamentale nella definizione dell’identità culturale e civile degli Stati Uniti (esperienza e conoscenza conseguenza diretta dell’amore e della passione). Fumetto, musica, narrativa, saggistica, televisione e  nuovi media sono egualmente per Adam campi di esplorazione e conoscenza del proprio paese, senza mai limitarlo negli interessi e nelle letture (chiedetegli se gli piace Primo Levi, poi restate voi ad ascoltarlo, che io ho da fare).

Ora, in occasione del post precedente, ho chiesto l’opinione di Adam su alcuni punti del testo. Sapevo della sua Dylan-filia e davo per scontata la conoscenza della canzone, che comunque gli inviavo. Così non era (e considerata la fama e la tradizione di Blind Willie McTell come pezzo-fantasma, trovo la cosa just fitting). Dire che mi sono sentito davvero orgoglione (termine di ampio uso nel bolognese; spero che sia sufficientemente self-explaining perché non lo spiegherò io: questo blog lo leggono anche i bambini) è dire poco. Adam ha reagito a questa scoperta per lui meravigliosa (come a suo tempo lo fu per me) con l’entusiasmo e l’acume soliti, per non parlare della spontaneità, che ha prodotto un commento che, col suo permesso, condivido con voi in originale (l’osservazione sulle maidens conferma – come pensavo – che le “charcoal gypsy maidens” che “sanno come agitare le loro piume” sono da intendere sostanzialmente alla lettera: ragazze di colore che si esibiscono in spettacolini di frontiera).

Sheer genius — I liked everything I heard from “Infidels” when it came out but to this day have not gotten it (and a quick google search explains that even those who got the album then had to wait longer for this one). Brilliant, unvarnished view of bounty and beauty existing side-by-side with desolation and misery. Keen insight into what white folks have done with zero self-congratulation from the white guy making the admission. I love the lethal contradiction in the lines about seeking God’s goodness as another form of earthly appetite and self-exaltation. I think the line about maidens merely refers to young black women, presumably entertainers some time after slavery, perhaps in the vaudeville/”chitlin circuit” days; finery and transience of the mardi gras or burlesque sort. At first I wondered if Dylan’s overemoting at the end, but then I realized he’s railing against the cruel barricade of his own inability to match the artistry of a man who has that gift due to suffering Dylan also can’t conceive of or help (though perhaps they meet and touch on that plane of regret and pass along a memory in that moment)…

Mi ha colpito molto il commento di Adam al verso finale, dove l’io/Dylan-narrante emerge dolente in tutta la sua frustrazione, di fronte all’evidenza di un modello inarrivabile.
Ma Adam lo dice meglio.
Una sottolineatura un po’ più tecnica precede un’altra bella osservazione su come in pochi versi Dylan riassuma e compendi punti cruciali per la storia e l’anima americane. Il mio dubbio riguardava l’ambiguità del verso

As they were taking down the tents

per il doppio significato di “take down” (“smontare” ma anche “abbattere”). Anche Adam trova il verso effettivamente (e – aggiungo io – genialmente) ambiguo:

I wasn’t sure if this referred to a traveling show or an American Civil War encampment — though this song meanders through the ghostly edifices of all that’s affirming and horrifying in the American South, so it could work as both. It’s not that the flashes have no context, but more like they are compressed into a shared space through the sorcery of Dylan’s perception — joys and wrongs from across 400 years, but side-by-side in the intensity that they still loom in people’s memory, nostalgia or shame.