È finalmente uscito anche in Italia Fagin l’ebreo di Will Eisner che, come il suo romanzo successivo, Il Complotto, pubblicato da noi nel 2005, può essere considerato una riflessione sul rapporto dello scrittore con il mondo e su come un’opera letteraria possa, nel bene e nel male, contribuire a plasmare la realtà.
Scriveva Don De Lillo in Mao II:
“Una persona siede in una stanza e ha un pensiero e questo esce sanguinando nel mondo.”
Se i Protocolli dei Savi di Sion (di cui parla Il Complotto) sono il caso estremo di una falsificazione orchestrata, o Grande Menzogna, come l’ha definita Umberto Eco, ci sono casi più ambigui in cui stereotipi, menzogne e invenzioni letterarie vengono trasmessi senza fare rumore, si diffondono e a poco a poco diventano delle verità.
In genere siamo inclini a pensare che un autore sia portato a riflettere su vari aspetti della sua opera, chiedendosi per esempio quali reazioni susciterà nel pubblico, quale contributo darà alla comprensione della realtà e via dicendo.
E invece così scontato tutto questo non è.
Pensate per esempio a quanto è recentemente accaduto persino a Roberto Saviano a cui certo non si può rimproverare di non prendersi le proprie responsabilità di giornalista e scrittore.
Il punto di forza del suo romanzo Gomorra sta nella verità dei fatti narrati, tanto che l’autore esce allo scoperto facendo nomi e cognomi. Eppure, inaspettatamente, si appoggia all’infondatezza del sentito dire quando racconta in che modo i cinesi morti in Italia facciano ritorno al loro paese dentro container.
Saviano fa leva sull’inquietudine nel confronti della comunità “non integrata” degli immigrati cinesi per costruire lo scenario di un mondo sommerso utile allo sviluppo del suo romanzo. In questo modo contribuisce però a rafforzare uno stereotipo, incrementando il divario tra noi e gli altri e, ovviamente, sollevando la legittima indignazione dei diretti interessati.
Questa vicenda ricalca un po’ quanto accadde a Dickens con la figura di Fagin. Nel tentativo di dare una descrizione realistica ma colorita dei bassifondi di Londra, l’autore di Oliver Twist si sintonizzò sul luogo comune ricorrendo allo stereotipo allora molto diffuso dell’ebreo criminale. Cosa c’è infatti di più vero di ciò a cui le persone vogliono credere?
Recentemente, guardando Oliver Twist di Roman Polanski (2005) mi è immediatamente balzata agli occhi la rappresentazione di Fagin: naso adunco, occhio infossato, colorito smunto.
Insospettabile Polanski, che è stato toccato personalmente dalla tragedia dell’olocausto, ma forse il regista aveva una propria intima ragione per richiamare alla memoria certi fantasmi.
Come giustificare invece David Lean quando, nell’immediato dopoguerra, con Le avventure di Oliver Twist (1948) propose una rappresentazione di Fagin che sembrava uscita da riviste come “Der Stürmer” o “La difesa della razza”?
Immaginatevi le reazioni. La pellicola fu immediatamente bandita dalle sale cinematografiche di Stati Uniti, Israele ed Egitto.
Stessa pioggia di critiche e indignazione anche per Oliver!, il musical di Lionel Bart che nel 1968, in versione cinematografica, vinse l’Oscar come miglior film.
La persistenza è una delle caratteristiche più tipiche dello stereotipo. Malgrado Dickens avesse tolto ogni riferimento alla religione del suo personaggio fin dalla seconda edizione dell’opera, non per questo Fagin cessò di essere Il Giudeo. Complici anche le incisioni di George Cruickshank, che accompagnarono il romanzo fin dalla sua prima uscita su rivista.
Inutile dire che Fagin era qui rappresentato con il solito naso pronunciato, le guance scavate e quegli occhi infossati da demonio. Non uso quest’ultimo termine a caso. Dickens si riferisce a Fagin come “the Old One”, un soprannome del diavolo.
Parlare di un’etica della scrittura vuol dire tutto e niente. Ci riferiamo a un certo senso di responsabilità dell’autore, è vero, ma fino a che punto egli potrà essere coinvolto nelle interpretazioni che i lettori daranno della sua opera?
Il caso più eclatante, di cui parla anche Derrida nelle Otobiographies, è quello di Nietzsche: come poteva il filosofo prevedere una strumentalizzazione in chiave nazista della sua opera, avvenuta dopo la sua morte, e quindi difendersene?
Per quanto riguarda Dickens, quando ebbe la trovata di usare l’epiteto di ebreo per uno dei più loschi personaggi del suo romanzo e autorizzò le incisioni di Cruickshank, i pogrom di Alessandro II non erano ancora stati emanati e Auschwitz era solo una città di nome Oświęcim.
È chiaro che un autore può controllare davvero poco le ricadute di ciò che scrive, specialmente in epoche successive alla propria, ma questo non può escluderne la responsabilità. Se è vero che il lettore ha una quota di partecipazione nella composizione di un’opera, l’autore ci mette pur sempre la firma, destinata a sopravvivere alla mano che l’appone.
Giustamente Eisner decide quindi di aprire un dialogo con Dickens, chiamandolo direttamente in causa sulla questione del pregiudizio e dello stereotipo.
Nel romanzo a fumetti, lo scrittore è una vera e propria presenza e Fagin gli parla come un condannato a morte si rivolge al proprio Dio, accusandolo di essere stato ingiusto con lui.
Dickens si difende affermando di aver solo voluto ritrarre la “verità” e Fagin replica:
“Indicare un uomo riferendosi solo alla sua razza è ‘verità’? O lo è usare ‘ebreo’ come sinonimo di criminale?”
Certo, ormai è tardi, la storia non può cambiare. La condanna al patibolo per Fagin è scritta fin dall’inizio.
Eisner crede però che sia possibile modificare il nostro giudizio sui fatti che riguardano il passato e in questo modo operare un cambiamento sul presente.
Gli strumenti che abbiamo a disposizione sono innanzitutto quelli della conoscenza e del discernimento.
Ma anche la capacità di tenere vivo un dialogo con la parola scritta, intervenendo magari per dare una nuova faccia a un consumato ricettatore ebreo dell’Ottocento o per mettere in riga un autore dalla penna un po’ facile.
(Francesca Faruolo)
Tag: Dickens, Fagin l'ebreo, Il Complotto, letteratura, Oliver Twist, pregiudizio, romanzo a fumetti, stereotipo, Will Eisner
mercoledì, 12 marzo 2008 - 19:03 alle 19:03 |
Sono completamente d’accordo con la tua analisi, Andrea ( o forse con quella di Eisner, in definitiva). Questo discorso ha però un rovescio, ovvero che è nata una nuova generazione d’autori completamente annichilita dalle proprie responsabilità e che in nome della correttezza politica evita tout court di esprimere un’opinione. In fondo anche Shakespeare coltivava pregiudizi antisemiti, ma chi vorrebbe cambiare Shylock facendolo diventare un attempato e ragionevole signore felice di arricchire il vicinato con il bagaglio di saggezza plurisecolare del suo popolo?
giovedì, 13 marzo 2008 - 00:47 alle 00:47 |
Come anticipato nel messaggio di Benventuto, questo blog ospiterà interventi di altre persone oltre ad Andrea. In questo caso l’autrice del post sono io.
Per rispondere alla tua osservazione, la letteratura, il cinema, il teatro e l’arte in genere hanno sempre tenuto vivo un confronto con i propri modelli, a volte facendo operazioni radicali di riscrittura dei personaggi e delle ambientazioni con approfondimenti, attualizzazioni ecc. Anche nel fumetto questo filone è ben presente, basta pensare al trattamento dei supereroi.
E questo mi pare che non abbia annichilito nessuno, anzi, se mai ci ha arricchito.
(La tua domanda su Shylock ha acceso la mia curiosità e, da una rapida ricerca in rete, è venuto fuori che anche lui ha avuto il piacere di essere ripensato da un drammaturgo contemporaneo, Arnold Wesker, autore di “The Merchant” sul tema dell’antisemitismo.)
giovedì, 13 marzo 2008 - 13:37 alle 13:37 |
Francesca, innanzitutto mi scuso per non aver colto che l’autrice dell’articolo eri tu e non Andrea, temo di essere un po’ distratta, in questo periodo.
Il resto delle tue osservazioni mi lascia un pochino sconcertata. Probabilmente il mio intervento era qualunquiste, ma mi sembrava abbastanza chiaro che intendevo dire che forse in questo periodo gli autori si preoccupano TROPPO della political correctness e delle eventuali ripercussioni di quello che scrivono. Il che, mi scuserai, è radicalmente diverso dal dire che l’affrontare una tematica da un diverso punto di vista nuoccia in qualsiasi modo alla letteratura, visto che è palesemente un sintomo di libertà espressiva ed autocritica.
Temo proprio che ci sia stata un’incomprensione, Francesca.
giovedì, 13 marzo 2008 - 18:25 alle 18:25 |
Credo invece di aver capito ciò che vuoi dire. Ribadivo solo quello che ho scritto anche nel post su Eisner.
Ogni testo può riflettere i limiti dello scrittore, della sua cultura e della civiltà umana a un certo punto della sua storia. Questa constatazione non dovrebbe però trattenere nessuno dallo scrivere il proprio racconto. Eventualmente ci sarà qualcuno pronto ad aggiustargli il tiro se è il caso. Chiamalo editor, lettore/critico o autore a sua volta, questa figura è necessaria e speriamo che a nessuno manchi mai il coraggio di farlo.
Forse oggi c’è maggior sensibilità verso alcuni aspetti di correttezza politica e può esserci come dici tu la paura di scrivere su temi delicati. Non è detto infatti che tutti gli autori si sentano all’altezza. Anche se c’è sempre la possibilità di sbagliare in modo interessante.
Comunque, le tue osservazioni nascono sicuramente da esperienza personale o di persone a te vicine, quindi ne prendo atto. Se hai qualche esempio specifico da darmi mi farebbe piacere, così capisco meglio ed evitiamo anche di parlare troppo in astratto.
sabato, 15 marzo 2008 - 08:56 alle 08:56 |
salve
ho incrociato questo intervento grazie alla segnalazione di un amico
e ho seguito da vecchio amico di Andrea
e la cosa migliore e’ che sono riuscito a leggere il tuo pezzo fino alla fine
cosa rara, in genere, con le letture dalla rete…
ma insomma
davvero un bell’intervento, che sposta e riporta il tema qui e la’
e un paio di cose mi hanno catturato
visti i miei interessi
la questione dell’ebreo
e la questione dell’etica della scrittura
e anche quella del dialogo fra le opere
gia’, non sono un paio, sono tre…
comunque sia
molto d’accordo, su quel che dici a proposito di Dickens
che non poteva pensare prima a quel che poteva succedere dopo
resta, la questione dell’etica della scrittura, secondo me
piuttosto bruciante
allo scrittore infatti non posso chiedere quel che non puo’ darmi
(vedi la prescienza)
esigo pero’ la sua trasparenza in termini di onesta’ intellettuale
mi sto un po’ aggrovigliando, eh?
mi sposto su un tema, su un nome, appena distante
Heidegger e la sua prossimita’ al regime hitleriano
Heidegger resta un grande filosofo nonostante le sue pagine
davvero scadenti
a proposito del regime?
forse si’
resta un esempio di come dovrebbe essere un intellettuale?
certo no
la sua scrittura si e’ cioe’ “dannata” nel seguire
maldestramente, convintamente
certe correnti della storia per le quali il filosofo ha forse mostrato troppa “leggerezza” nel considerarne portati e possibili conseguenze
cerco di rientrare nel campo
Eisner allora e’ giustificato
nel chiedere a Dickens (a Dickens!!!) una specie di giustificazione
o una chiamata di correita’?
si’, direi io
ma si’ in quanto autore a sua volta
ecco il bello del dialogo fra le opere
fra gli autori
che sono “possibili” e “lecite” cose che altrimenti potrebbero scadere a livello di chiacchiera
nel senso
un conto e’ se io mi metto a discutere con gli amici di come avrebbe dovuto comportarsi Dante, in quella occasione
un altro, a parer mio, se scrivo un’opera (con un certo livello di dignita’, chiaro) in cui metto in questione lo stesso tema
uno e’ il piano della chiacchiera
uno quello del confronto
del dialogo intellettuale
ma sono cose che penso io, certo
e che mi hanno stimolato le tue parole
grazie, allora
Luca
e altro ancora, forse
ma devo pensarci ancora un po’…
lunedì, 17 marzo 2008 - 00:44 alle 00:44 |
Grazie per quello che scrivi.
Il romanzo di Eisner lascia spazio a molte riflessioni con riferimenti anche colti e letterari in tema con il romanzo. Quando Eisner parla del modo subdolo in cui lo stereotipo e il pregiudizio si insinuano nelle nostre menti, e chiama in causa l’autore di Oliver Twist, a me è venuto subito da fare un parallelo con il linguaggio di certa stampa, pensando in particolare alla costruzione sociale della criminalità cui concorrono i mezzi d’informazione.
Perchè c’è poco da fare, il rapporto più stretto tra scrittura e realtà è quello che si consuma attraverso le pagine di cronaca. Pare che anche Dickens abbia costruito il personaggio di Fagin ispirandosi a Ikey Solomon, un ricettatore ebreo di cui aveva seguito il processo sulla stampa inglese, alcuni anni prima. La letteratura è come un’aspiratore che risucchia e rielabora i materiali che trova… spesso anche sulla carta di giornale.
Ovviamente non ho parlato di questo nel mio post su Fagin, perché avrei deragliato non poco rispetto alla storia che Eisner ha voluto raccontare, però sotto sotto i miei pensieri giravano e continuano a girare lì intorno…
sabato, 29 marzo 2008 - 11:34 alle 11:34 |
chissa’ se nei blog valgono i commenti fuori tempo massimo….
perche’ mi pare proprio cosi’
che la letteratura si nutre della cronaca
nei casi migliori, e non solo , forse
tu dici Dickens
io penso a Dostoevskij, non a caso forse gli piaceva tantissimo Dickens
pero’, certo, pare anche a me un punto importante
come in fondo la letteratura debba occuparsi del mondo
dirlo, mi viene da dire, in modo migliore di quanto non riesca la cronaca…
e altro, ancora, chissa’
mercoledì, 13 aprile 2011 - 17:03 alle 17:03 |
[…] 050 2216060 / museodellagrafica@adm.unipi.it), insieme a Fabio Gadducci. E naturalmente opere come Fagin l’ebreo di Will Eisner forniscono numerosi spunti per parlare delle potenzialità narrative del fumetto e […]
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