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HP e Stefano Gaudiano

mercoledì, 14 luglio 2010 - 22:00

Questo post è il seguito diretto del precedente e non lo appesantirò di link o altri contenuti che potete trovare lì. E non è un trucco per aumentare i contatti (amici blogger più esperti e maliziosi non mi crederanno mai).
Abbastanza sorprendentemente (ma non più di tanto, se credete che esistano ancora le notizie e non solo il rumore di fondo) la notizia della morte di Harvey Pekar non è scomparsa dalle cronache online nel giro delle consuete 24 ore. Se ne parla ancora e persone e appassionati che spesso conoscono poco più del suo nome esprimono cordoglio, rammarico e rimpianto per non averlo conosciuto meglio (e tralasciamo i commenti sul fatto che Pekar in Italia praticamente non è mai arrivato).
Avevo accennato a tradimento a un piccolo segreto Pekar-related di Stefano Gaudiano, un disegnatore italiano che risiede negli USA ormai da 30 anni e con cui – incidentalmente – ho da anni uno scambio interessantissimo (e per me traduttore, prezioso) sul lento evolversi nel tempo della (sua) identità linguistico-culturale. Ma divago.
Non c’è voluto molto (anche meno, a dire il vero) per convincere Stefano a vuotare il sacco (o a versare i fagioli, come direbbe lui) e quello che segue è il suo ricordo-confessione-rammarico per la peculiarissima Pekar-experience che ha vissuto negli anni.
Pekar è una figura molto cara a Stefano che – giusto per darvi un’idea – abita qua e ha seriamente pensato di partecipare ai funerali di Pekar, che si sono svolti qua. Fate un po’ voi.

Non ho nulla da aggiungere al suo ricordo e al bel disegno qua sopra, che secondo lui “gli ho fatto fare” (in realtà è stato lui a fare una sorpresa a me), se non che una frase di Stefano mi ha folgorato: il suo dubbio di avere rivisto/incontrato oppure soltanto letto Harvey Pekar (che – non mi sono neppure preso il tempo di dirlo – compare nelle vesti di se stesso e di narratore in prima persona in quasi tutte le sue storie ed è il precursore e maestro indiscusso di qualsiasi cosa voglia anche solo pretendere di chiamarsi “real-life comics” o “fumetto autobiografico”, tanto per stare sul sicuro e usare un cliché). Non è neppure un lapsus, solo un dubbio.
Mica male come recensione.

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1985
Il Comics Journal (numero 97 di aprile) pubblica una severissima recensione della rivista su cui esordisco. In copertina, un disegno di R. Crumb (“Chi è questo? Bravo però.”) presenta “From off the streets of Cleveland”: Harvey Pekar e American Splendor.

1987
Ho appena finito Kafka e tira aria di crisi esistenziale. Vado a Dallas per una fiera di fumetti dove spero di incontrare Hugo Pratt, che però non si fa vedere. Accanto al tavolo della Renagade Press, dove ero di base, siede Harvey Pekar.
Non ricordo se già allora alcuni amici avessero cominciato a chiamare “Italian Squalor” le mie disavventure personali, ma anche solo per quel numero del Journal dedicato a lui sento un certo legame con questo signore, e chiacchieriamo liberamente. Vedendomi in uno stato che conosce bene mi racconta l’aneddoto che più tardi leggerò su un vecchio numero di AS, di quando aveva più o meno la mia età e andò in Florida per suicidarsi col semplice metodo di sedersi sotto una palma senza mangiare o bere finché non fosse morto.
Insomma, leghiamo un po’ e ci scambiamo i numeri di telefono.

1988
Da una specie di limbo personale a Durango, cittadina minerario-turistica del Colorado, telefono a Pekar (risponde Joyce! [la moglie di Pekar – NdR]) per chiedere consiglio in generale e magari una storia da disegnare. Lui mi chiede di vedere qualcosa di mio che non sia Kafka, per farsi un’idea di come affronterei l’atmosfera quotidiana delle sue storie.

1989-2010
Non ricordo di avergli mai spedito delle prove. Credo di no. Da qualche parte ho ancora dei tentativi abortiti. Ma so con quasi assoluta certezza che nel ’96 ho in mano un suo breve soggetto: un dialogo assurdamente banale fra impiegati nell’ascensore di un ospedale. Mi colpisce la scenografia scarna e dopo qualche abbozzo insoddisfacente sull’impostazione delle vignette resto interdetto nel vuoto, come sempre. Non ho trovato la voce giusta per accompagnare Pekar in ascensore.
Credo di vederlo almeno a un’altra convention, anzi, ne sono quasi sicuro. Era a san Diego l’anno che Dan Castellaneta recitava American Splendor sul palco. Poi chissiricorda se l’ho sentito di persona o semplicemente ho letto i suoi fumetti. So di avergli parlato per telefono, e forse gli ho scritto una lettera chiedendo scusa per aver preso una storia e non averne fatto niente per anni e anni. Lui mi ha rassicurato che non c’era problema e la storia è rimasta in mano mia.

Stefano Gaudiano
Issaquah (WA, USA) – Luglio 2010